martedì 26 aprile 2022

Netflix Original 41: War Machine


Fare satira o ironia su un argomento delicato quale è la guerra è sempre un'operazione rischiosa, in quanto si vanno a trattare temi delicati e che coinvolgono anche le popolazioni civili di un paese martoriato da un conflitto che può anche durare da svariati anni. Tuttavia, coloro che prendono le decisioni sulla guerra - l'establishment politico, militare e anche economico - sono il soggetto perfetto della satira.
Nel 2012 viene pubblicato il libro Pazzi di Guerra (The Operators: The Wild and Terrifying Inside Story of America's War in Afghanistan), scritto da Michael Hastings, che descrive il fallimentare periodo del generale Stanley McChrystal come capo delle forze armate in Afghanistan, così disastroso da venir sollevato da questo incarico dopo pochi mesi da Barack Obama in persona a seguito di un'intervista molto critica comparsa sulla rivista Rolling Stone.
Il libro viene adattato sotto forma di lungometraggio come War Machine, scritto e diretto da David Michôd e distribuito su Netflix a partire dal 26 maggio 2017.
In questo film Stanley McChrystal diviene Glen McMahon (Brad Pitt), che nel 2009 insieme al suo fidato team di assistenti viene inviato in Afghanistan al fine di garantire la transizione verso un regime democratico dopo la caduta dei Talebani.
McMahon, però, incontra subito delle difficoltà lungo il cammino, tra i locali che non vogliono il cambiamento anche se esso appare positivo e le critiche da parte delle alte sfere di Washington, che non inviano le truppe aggiuntive richieste dal generale.
Per ovviare a questa situazione, Glen McMahon si imbarca col suo staff in un giro per l'Europa con l'obiettivo di formare una coalizione internazionale... ma questo viaggio segnerà la sua rovina.
Questa pellicola non fa sconti a nessuno: militari, politici, lobbisti, tutti diventano oggetto di una satira che - e la cosa risulta ancora più chiara se pensiamo a come la fase di transizione si sia conclusa - mette alla berlina la fallimentare gestione degli Stati Uniti del post-conflitto in Afghanistan, nato peraltro su fragili basi.
Il monologo che spiega come "esportare la democrazia" in un paese con una storia e società del tutto diversa da quella americana sia destinata all'insuccesso è emblematico. Gli americani non perdono mai la convinzione di poter portare il loro modo di pensare in questo paese, ma i primi a chiedere loro di andarsene, arrivando addirittura a rimpiangere i vecchi tempi, sono gli afghani. Perché non si può costruire nulla di solido senza forti fondamenta e questo non è stato il caso.
In tal senso, la figura di Glen McMahon rimane la più paradossale. Costui, magnificamente ritratto da Brad Pitt, è davvero convinto di poter fare la differenza, che la sua presenza porterà benefici per tutti e che le opere che stanno compiendo siano a fin di bene. Anche la sua gestualità, il suo modo pomposo di camminare, il modo in cui osserva i suoi interlocutori mentre parlano, riflette questa sua iniziale convinzione che lentamente va a spegnersi mentre tutti quelli che dovrebbero sostenerlo lo abbandonano.
E quella che ci ritroviamo alla fine è dunque una figura sconfitta che non ne ha compreso a pieno il motivo, tanto salde erano le sue certezze in merito.
Nella pellicola compaiono in ruoli secondari altri grandi attori quali Ben Kingsley, che interpreta Hamid Karzai, e Tilda Swinton nel ruolo di un'emula di Angela Merkel.
In una sorta di (purtroppo facile) previsione di come in ultima analisi si sarebbe concluso il tutto, la scena finale mostra l'arrivo del successore di Glen McMahon (Russell Crowe, in un inatteso e divertente cameo), con lo stesso modo di camminare e lo stesso sguardo deciso. Anche lui destinato al fallimento fin dal principio.
Una satira, sì, una satira molto amara.

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