lunedì 27 aprile 2020

Fabolous stack of comics: Spider-Man - Gli Spiriti della Terra


Quando si pensa all'Uomo Ragno/Spider-Man, molti considerano anche e a fondata ragione lo straordinario cast di comprimari che caratterizza il suo mondo, a partire dai suoi familiari e amici, fino a includere il parco criminali che l'eroe è costretto ad affrontare.
C'è tuttavia un altrettanto importante comprimario, presente nelle storie di Spider-Man sin dal principio: la città di New York. La Grande Mela, con le sue spire che si protendono nel cielo dove la ragnatela di Spider-Man può intrecciarsi, ha avuto in questi decenni il ruolo di testimone muto delle avventure dell'eroe.
Risultano dunque particolari quelle storie dove questo "comprimario" non è presente, con tutte le conseguenze del caso. Ricordo ad esempio un albo scritto da Peter David in cui Spider-Man si ritrova in una piccola città di periferia, dove la sua ragnatela non può aggrapparsi a nulla, con le inevitabili, ilari conseguenze.
Spider-Man: Spirits of the Earth (Gli Spiriti della Terra), one-shot - o se proprio volete graphic novel - pubblicato nel 1990, rientra in questa curiosa categoria dove Spider-Man è... Far From Home... badum tss.
Scrittore e disegnatore della storia è Charles Vess, specializzato nel genere fantasy e che anni dopo avrebbe iniziato una proficua collaborazione con Neil Gaiman. Risulta dunque comprensibile come dopo poche pagine, grazie a un pretesto narrativo, Spider-Man abbandoni New York insieme a sua moglie Mary Jane Watson per recarsi nelle campagne scozzesi.
La storia, pur non banale a tutti i costi, è molto esile e senza vette particolari. Psicologie dei personaggi, principali e comprimari, ridotte all'essenziale. Quello che interessa principalmente a Vess è poter ritrarre - con una maestria difficilmente eguagliabile - le distese e i paesaggi della Scozia, rendendo omaggio al folklore che anima quei luoghi, compresi streghe, folletti e fantasmi.
All'autore piacciono gli scenari ampi, verdeggianti, dove lo sguardo riesce a fatica a scrutare l'orizzonte. Tra i grattacieli di New York si sarebbe trovato di certo confinato e limitato. E infatti il lettore, più che dalla trama, si fa incantare dai particolari ritratti da Vess, cercando di intuirne anche le sfumature.
Non si rimane delusi dal risultato finale, ma non si può fare a meno di interrogarsi su come questa storia avrebbe potuto avere un risultato migliore se i dialoghi fossero stati maggiormente curati. C'è da dire comunque che i disegni, oserei dire i dipinti, di Vess compensano in maniera abbondante questa mancanza. Spirits of the Earth è quello che si può definire un progetto tarato sul disegnatore e le sue capacità, dove la sua libertà di esprimersi è rilasciata allo stato brado... con tutti i pro e i contro che ne possono derivare.

sabato 25 aprile 2020

Libri a caso: Aiuto, Poirot! (ovvero di Agatha Christie e delle radici sherlockiane)


Quando esordì come scrittrice di romanzi gialli, nel 1920, Agatha Christie doveva inevitabilmente farsi le ossa. E quindi, per i primi romanzi e racconti, cercò di ispirarsi ai principali riferimenti nell'ambito della letteratura del mistero presenti nella sua epoca. E qual era il riferimento principale, anzi forse a ben vedere l'unico? Esatto, Arthur Conan Doyle e il suo Sherlock Holmes.
Ecco, dunque, nei primi romanzi e racconti incentrati su Hercule Poirot, la presenza al suo fianco del Capitano Arthur Hastings (un passato nell'esercito, proprio come John Watson), ecco i due condividere un appartamento a Londra (proprio come... ok, si è capito) e aiutare il Lestrade della situazione, l'Ispettore James Japp. Al posto del metodo di deduzione di Holmes, Poirot usa le sue celluline grigie, poiché i semplici mezzi di investigazione non sono sufficienti a suo avviso a capire la vera natura di un crimine.
Agatha Christie, tuttavia, inizia dopo qualche anno a sentire come opprimente questo modello, desidera tracciare una propria strada, da scrittrice intraprendente e abile quale è. Non è così facile inoltre affiancare una spalla a un abile detective, si rischia sempre di farlo apparire non solo come uno sprovveduto in confronto a un'abile mente indagatrice, bensì come uno stupido tout court, cosa che Watson non è mai stato, anche se c'è chi ama pensare il contrario.
Hastings, invece, la figura dello stupido la fa e come, tanto che ad ammetterlo è la stessa Agatha Christie qualche tempo dopo, tramite una frase di Poirot inserita in un romanzo successivo. E decide così di sbarazzarsene, in senso buono, col secondo romanzo avente a protagonista il detective belga, Aiuto, Poirot! (The Murder on the Links) pubblicato nel 1923.
Una storia che si innesta nei consueti stilemi della narrativa del mistero dell'epoca, con Poirot e Hastings contattati tramite una lettera d'aiuto che sembra giungere troppo tardi e che viaggiano per alcune nazioni europee per venire a capo dell'enigma. Sembra una di quelle storie dove Holmes e Watson abbandonano l'amata Londra per recarsi altrove, quell'altrove in cui anche la campagna inglese appare come un nuovo mondo.
Il romanzo di per sé è ordinario, non ha particolari vette, ma questo è del tutto normale se si pensa che è comunque appena il terzo romanzo scritto da Agatha Christie, che comincia a carpirne le potenzialità nell'ambito della letteratura del mistero. E quindi, per portare avanti un proprio percorso, alla fine del romanzo Hastings se ne va, diretto in Argentina verso nuove avventure coniugali. Anche se a dire il vero sarebbe ricomparso di tanto in tanto.
Una vita felice per Hastings, dunque, ma non per Agatha Christie invece, che presto avrebbe iniziato a sperimentare le traversie del suo primo matrimonio, con tutto ciò che questo ha comportato. Un po' ironico quindi vedere che Aiuto, Poirot! è stato dedicato al suo primo marito Archibald. Ma Roger Ackroyd ormai incombe.

mercoledì 22 aprile 2020

A scuola di cinema: Venerdì 13 Parte 3 - Weekend di Terrore (1982)

Dopo aver esordito come assassino nella Parte 2, a Jason Voorhees - seguendo il solco del suo indiretto ispiratore, il Michael Myers di Halloween - manca infine solo una caratteristica tipica dei killer seriali dei film horror. Un tratto distintivo, tramite cui il pubblico possa in maniera immediata associare il personaggio a quella saga. Il terzo capitolo di Venerdì 13 provvede a questa mancanza.


Il primo problema che si presenta ai produttori della Paramount è come ideare un film che per la terza volta mostri la stessa trama (un massacro in un campo boyscout, finché rimane solo una ragazza che sconfigge l'assassino) senza apparire ripetitiva e la soluzione che viene ideata è quella di sfruttare la tecnologia 3-D, che sta di nuovo emergendo nel cinema di quell'epoca con apparenti buoni risultati dopo decenni di oblio. In quell'epoca ad esempio nuovi capitoli delle saghe de Lo Squalo e di Amityville Horror vengono concepiti per il 3-D. Insomma, stessa trama ma effetti speciali diversi: logico, no?
Viene dunque dato mandato che ogni aspetto della produzione, partendo dalla sceneggiatura, fino alle luci e alle inquadrature, si concentri su questo aspetto, lasciando in secondo piano la recitazione. Uno degli attori - Larry Zerner - viene addirittura reclutato per strada, mentre sta distribuendo dei volantini che pubblicizzano un film della saga di Mad Max.
Steve Miner viene riconfermato come regista, mentre Ron Kurz decide di non tornare come sceneggiatore, poiché la Paramount intende non tenere conto del finale da lui concepito del secondo film, bollandolo come una scena onirica.
In sua sostituzione vengono chiamati Martin Kitrosser e sua moglie Carol Watson, che si erano occupati della correzione delle bozze del precedente capitolo. Alla consegna del loro trattamento, la Paramount non rimane del tutto soddisfatta e chiede una revisione a Petru Popescu. Nonostante un ampio contributo alla sceneggiatura finale, Popescu non viene tuttavia accreditato come sceneggiatore.
In un primo, abbozzato trattamento è previsto il ritorno del personaggio di Ginny, la protagonista della precedente pellicola. La trama prevede che, dopo gli eventi della Parte 2, Ginny finisce in un istituto psichiatrico a causa dei traumi subiti, ma Jason va alla sua ricerca per vendicarsi, uccidendo chiunque si pari lungo la sua via. Tuttavia, l'attrice che aveva interpretato Ginny, Amy Steel, e il suo agente non trovano un accordo commerciale con la Paramount e dunque costei rifiuta la proposta per cercare di perseguire altri ruoli in ambito sia cinematografico che televisivo.
La trama viene quindi alterata in maniera drastica e l'ambientazione ritorna alle radici "classiche" di Crystal Lake. Quando però qualcuno si accorge che la storia è ormai diventata l'esatta fotocopia della Parte 2, solo con personaggi con nomi diversi, si decide di aggiungere la tecnologia 3-D per dare al pubblico qualcosa di nuovo.
A Steve Daskewicz viene proposto di tornare a interpretare Jason Voorhees, ma dovendo la produzione spostarsi in California, laddove la tecnologia 3-D è più accessibile, gli viene detto che dovrà pagarsi da solo le spese di viaggio. Daskewicz dunque per ovvi motivi rifiuta la proposta e al suo posto viene ingaggiato il quarto Jason Voorhees cinematografico, un trapezista inglese alto quasi due metri di nome Richard Brooker, capace di effettuare anche le acrobazie più pericolose. Per aumentare la sua muscolatura, viene creata un'apposita imbottitura piazzata sotto i suoi vestiti.
Nella sceneggiatura è previsto che Jason indossi una maschera, senza andare troppo nello specifico. Il look da incappucciato del precedente capitolo viene subito scartato, anche per evitare parallelismi con The Elephant Man. Per trovare la soluzione migliore che possa funzionare su uno schermo 3-D, Miner chiede una prova trucco durante un controllo delle luci.
Non avendo tempo o voglia di creare una maschera ex novo, il team di supervisione degli effetti speciali prende in prestito dal supervisore Martin Jay Sadoff una maschera da hockey da portiere dei Detroit Red Wings. Il test preliminare incontra i favori del regista e viene dunque creata una maschera specifica, leggermente più grande di quella originaria, con dei fori per respirare e delle strisce rosse a forma di triangolo. Nasce così, per caso e destino, uno dei look più iconici del cinema horror.
Una prima versione di Jason senza maschera viene ideata da Stan Winston, che non aveva potuto essere coinvolto nel precedente capitolo. Anche qui però le cose non vanno come dovrebbero e Winston abbandona il progetto, mentre al contempo viene riciclato il trucco di Carl Fullerton.
Le riprese vengono effettuate tra gennaio e febbraio del 1982, in alcune località della California. Poiché il film si svolge durante una calda estate, alcune scene in notturna vengono modificate o non girate, in quanto risulta ben visibile il respiro degli attori.
Vengono concepiti svariati finali, tra cui uno in cui Jason viene decapitato, un altro in cui Jason riesce a uccidere tutti e un altro in cui, quando i poliziotti arrivano, il corpo di Jason, che pure sembrava essere stato ucciso, è misteriosamente scomparso. La Paramount all'epoca, tuttavia, sta pensando di porre fine a questo franchise e lascia dunque un finale che può apparire ambiguo o anche no - Jason può essere morto a causa di un colpo d'ascia alla testa oppure no... in ogni caso poi si cambierà idea.
Inizia poi per la Paramount un vero e proprio incubo logistico per attrezzare svariate sale cinematografiche a proiettare il film, considerato che molte di loro non possiedono gli schermi o i proiettori adatti. Per questo arrivano a spendere una cifra vicina ai dieci milioni di dollari.
Venerdì 13 Parte 3: Weekend di Terrore (Friday the 13th Part III) viene programmato nei cinema americani a partire dal 13 agosto 1982... e, sì, se ve lo state chiedendo era un venerdì. A fronte di un budget di poco superiore ai due milioni di dollari, il film arriva infine a incassare solo sul territorio americano oltre 36 milioni di dollari.
Per via anche del problema avuto con le sale cinematografiche e le relative spese sostenute, viene ritenuto un risultato discreto, ma non eccelso. Comunque questo non è un problema, perché sta per avvicinarsi il Capitolo Finale. Ma questa... è un'altra storia.

domenica 19 aprile 2020

Libri a caso: Anni Senza Fine


Molti scrittori di fantascienza hanno tentato di tracciare una loro personale storia futura. Dopotutto, per un genere narrativo che si incentra (anche) sul raccontare lo sviluppo della società tramite il progresso scientifico, risulta troppo grande a volte la tentazione di limitarsi a un solo romanzo o racconto e nasce quindi la volontà di espandere il tutto tramite una serie di storie interconnesse.
Abbiamo visto così nel corso dei decenni Fondazioni, Spazi Conosciuti, Leghe e Confederazioni stellari e in esse predominava quasi sempre l'elemento umano. Quell'umanità che, pur con tutte le sue mancanze e debolezze, riusciva a esplorare nuovi orizzonti, nuove galassie.
Clifford Simak, invece, ha deciso di fare qualcosa di differente. La sua Storia Futura si intitola Anni Senza Fine (City) e si compone di otto racconti pubblicati tra il 1944 e il 1951, più un epilogo - a quanto pare scritto di malavoglia - pubblicato nel 1973.
City copre un arco temporale che va dal 2008 e si estende per circa un milione di anni, durante il quale l'Uomo in maniera progressiva si distacca dalla Terra, lasciandola in eredità alle altre specie animali, che diventano senzienti. In particolare Cani e Formiche.
Se altri cicli di storia futura lasciano spazio a un pur moderato ottimismo, Clifford Simak invece, pur non mirando a un pessimismo totale, mantiene un atteggiamento di scetticismo e malinconia. L'uomo è visto come una specie distruttiva, l'unica in grado di muovere guerra contro i propri simili e i più deboli, che rinuncia alla grandezza per colpa delle sue inettitudini ed è destinata perciò a scomparire. Anche quando la violenza appare debellata del tutto, nelle generazioni successive essa rimane a livello inconscio nelle menti degli uomini, come un tratto genetico che non può essere cancellato.
Discorso diverso invece per le specie animali, soprattutto i cani, che Simak vede come portatori di un messaggio di fratellanza universale, capaci di elevarsi nonostante l'uomo (ancor meglio, senza l'uomo) al loro fianco. Messaggeri di questa era futura sono i robot, molto diversi da quelli immaginati da Isaac Asimov, capaci anche di provare emozioni, ma non di piangere, come sottolinea con amarezza uno di loro in un momento chiave.
Forse la base di questa malinconia dell'autore è dovuta al periodo in cui vennero scritte le storie (sette di queste furono pubblicate tra il 1944 e il 1947). Simak è nato nel 1904 e quindi, in poco più di due generazioni, ha vissuto due guerre mondiali e altri conflitti come la Guerra Civile Spagnola. E ha testimoniato in prima persona la devastante potenza della bomba atomica.
La sua visione del futuro è quella di un uomo disilluso dal suo tempo, da un'umanità che restringendosi negli agglomerati cittadini ha perso la propria identità singola, libera e meno sanguigna che aveva quando viveva nelle campagne.
La lettura di questo libro, a così grande distanza di tempo dall'ultimo racconto e ben oltre il 2008 immaginato nella prima storia, può risultare di certo poco profetica, ma non per questo altrettanto rassicurante. Non ci sono robot. Non ci sono cani senzienti. Ma uomini che dichiarano guerra ad altri uomini, lasciando che siano i poveri e gli sfortunati a combattere le loro battaglie... sì, quelli ci sono ancora oggi. Forse il desiderio di conflitto è davvero nel nostro DNA.

sabato 18 aprile 2020

Fabolous Stack of Comics: Batman - Amore Folle


Ogni autore, quando crea un personaggio, spera in cuor suo che abbia successo. Non solo per un mero e giustificato motivo economico, ma anche perché la cosa permette all'autore di essere ricordato nel tempo.
E quindi, se oggi qualcuno pronuncia il nome Paul Dini, subito con ogni probabilità viene alla mente il personaggio di Harley Quinn, da lui ideata nel 1992 e comparsa in principio in una serie di animazione, Batman: The Animated Series, quella dove Batman è rapidissimo, furbissimo e giustissimo.
Sorvolando a piè pari sul fatto che Harley Quinn nasca grazie a una scena onirica di una dimenticata soap opera che vedevano i nostri genitori interpretata da un'attrice di nome Arleen (come è strano e affascinante il mondo dello spettacolo), pattiniamo sul tempo fino al 1994 quando ormai il personaggio di Harley Quinn è divenuto un beniamino del pubblico. Tanto che Paul Dini, in coppia col disegnatore Bruce Timm, ne narra le origini nell'albo speciale Batman: Amore folle (The Batman Adventures: Mad Love).
Una storia davvero surreale (tra dentisti fasulli, pirahna col sorriso, improbabili scene di seduzione), ma che nel contesto del mondo che gravita attorno al Batman della serie animata risulta del tutto funzionale.
Ciò che colpisce del personaggio di Harley Quinn - che si scopre essere diventata una psichiatra senza aver studiato davvero... mi ricorda qualcosa - è il suo essere come persona, almeno in questa sua prima fase, assolutamente sottomessa al Joker. Ogni volta che si ripromette di abbandonarlo, per le sevizie e le male parole che da lui riceve, ogni volta ritorna sui suoi passi, commette gli stessi errori. Come quelle persone che continuano a scrutare nell'abisso del male e non riescono a staccarsene, quelle persone che magari svolgono un servizio utile a una comunità.
Dini tuttavia non la dipinge come una vittima delle circostanze, altrimenti non sarebbe un amore folle, poiché la natura malvagia e perfida di Harleen Quinzel era presente anche prima che conoscesse il Joker, ed è lei che decide di andare incontro a questo destino. Ma quando un male minore incontra il male assoluto, esso è destinato a essere sovrastato.
Argomenti di certo non semplici da trattare, ma che lo sceneggiatore invece descrive col giusto distacco, facendo sì che le scene surreali distraggano la nostra attenzione da questo particolare e ci divertano, ma una volta terminata la lettura certi particolari ritornano alla nostra mente, lasciandoci in bocca un retrogusto amaro e un sorriso a denti stretti.
Non c'è da stupirsi dunque se questa storia all'epoca venne premiata con un Eisner Award e ancora adesso viene ricordata.
Oggi il personaggio di Harley Quinn si è evoluto, si è infine affrancato (o forse no) dal Joker, ma quel primo bozzolo da cui è nata rimane indelebile. E anche quel primo costume ideato da Bruce Timm... perché non farlo tornare?

giovedì 16 aprile 2020

Fabolous Stack of Comics: Corto Maltese - Equatoria


Corto Maltese e Hugo Pratt. Parrebbero qualcosa di inscindibile, molti sono convinti che il primo non possa sopravvivere senza l'altro, in una sorta di simbiosi narrativa. Invece non è così. In questi ultimi anni, Corto Maltese è andato avanti, nonostante la scomparsa del suo creatore nel 1995. E più di una volta.
I responsabili delle sue nuove avventure sono lo sceneggiatore Juan Diaz Canales, ideatore di Blacksad, e il disegnatore Ruben Pellejero, scelti dalla Rizzoli Lizard come portatori di questa ingombrante eredità, ma anche appassionante sfida editoriale.
La loro prima storia, pubblicata nel 2015, si intitola Sotto il Sole di Mezzanotte. La seconda, invece, oggetto di questo articolo, è Equatoria ed è stata pubblicata nel 2017.
I due autori compiono la scelta più saggia - e forse anche inevitabile - non andando a toccare la "mitologia" creata da Pratt, cercando magari di coprirne dei fantomatici o meno buchi. Dopotutto, se il modello di riferimento è per sua natura inarrivabile, perché cercare di raggiungerlo o, Rasputin non volesse, superarlo?
Ecco dunque Canales e Pellejero andare a rivisitare alcuni dei temi più cari a Pratt quali il viaggio, inteso in senso sia fisico che metafisico, la dimensione onirica, l'avventura in luoghi esotici, la ricerca di un tesoro perduto (che a Corto non interessa più di tanto tenere per sé, quanto aver avuto il piacere di averlo trovato e capirne la natura).
Non che mancassero inoltre figure femminili forti nelle opere di Pratt, ma in questa storia Canales decide di rendere le co-protagoniste femminili il vero centro dell'attenzione oltre a Corto Maltese, protagoniste per il loro carattere e la loro indipendenza, non per il loro essere donna. Spiriti liberi e indipendenti, come anche Corto Maltese ama essere, e che dunque le considera sue pari.
A circondare il tutto la tematica dell'eterno viaggiatore, quel Corto Maltese che rappresenta tutta l'umanità capace di elevarsi al di sopra delle proprie meschinità, il cui spirito indomito li porta lontani da casa. Una casa a cui forse non faranno mai più ritorno.
Un plauso infine va a Ruben Pellejero. Non ha cercato personalismi o costruzioni ingegnose della tavola: si è adattato in maniera perfetta allo stile di Hugo Pratt, pur alla fine non risultando un suo banale clone. Non era così semplice.
Quindi che dire, in ultima analisi? È una lettura a cui gli appassionati di Corto Maltese, se non l'hanno già fatto, dovrebbero dare un'occhiata. Ritroveranno di certo situazioni e atmosfere a loro care.
Invece per me è giunto il tempo di recuperare la prima storia di Corto Maltese a opera del duo Canales-Pellejero.

martedì 14 aprile 2020

Libri a caso: Sherlock Holmes - La Misteriosa Scomparsa del Signor Crane


Il mare magnum degli apocrifi dedicati a Sherlock Holmes è, alla data odierna, divenuto così magnum da poter essere definito gigantum... no, con ogni probabilità il termine mare gigantum non esiste.
In vita, Arthur Conan Doyle - creatore del celebre detective - scrisse sessanta storie dedicate a Sherlock Holmes e al dottor Watson (qualcuna in più, in realtà, ma se vi spiegassimo ora per filo e per segno vi verrebbe il mal di testa, quindi vi chiediamo per il momento di fidarvi sulla parola). Queste sessanta storie rappresentano il Canone con la C maiuscola.
Molti vi consiglieranno di fermarvi qui con le letture e, da un certo punto di vista, fanno bene. Se però voleste espandere i vostri orizzonti, ci sono molti apocrifi di Sherlock Holmes in giro per il mondo. Apocrifi vuol dire, a costo di risultare banale, che sono storie non scritte o abbozzate da Conan Doyle e, no, nemmeno se sono storie scritte da suo figlio contano.
Esiste persino una collana da edicola qui in Italia che li pubblica su base mensile! Anche ben curata, per quello che ho potuto vedere. Ed è dal ventinovesimo numero di questa collana - Il Giallo Mondadori: Sherlock - che ho tratto il romanzo sottoposto a questa disamina... se così la vogliaiamo definire: Sherlock Holmes - La Misteriosa Scomparsa del Signor Crane (Sherlock Holmes and the Baron of Brede Place), pubblicato nel 2015 e scritto da Daniel D. Victor.
L'autore compie due operazioni interessanti: in primo luogo riprende uno dei racconti del Canone, sempre con la C maiuscola, intitolato L'avventura di Charles Augustus Milverton, ampliandolo e offrendo un più ampio di vista, tanto che la storia si dipana in un arco di tempo molto lungo, partendo dal 1898 e concludendosi nel 1900.
Sorvoliamo su dibattiti quali se sia davvero necessario andare a toccare i testi sacri e, casomai non vi ricordaste di Milverton... avete presente il Charles Augustus Magnussen del serial Sherlock? Ecco, lui.
La seconda particolarità è che i co-protagonisti di questo romanzo sono figure letterarie realmente esistite a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo. Accanto a nomi noti come Joseph Conrad o H.G. Wells troviamo dunque personalità meno famose come il Crane del titolo, ovvero Stephen Crane, un originale scrittore statunitense precursore delle battaglie per l'uguaglianza sociale, e Harold Frederic, anch'egli uno scrittore statunitense trasferitosi su suolo inglese.
La realtà storica che coinvolge in particolar modo questi due ultimi autori citati, tanto incredibile da ritenere in un primo momento che sia frutto di fantasia, si fonde con la realtà narrativa e la mitologia che circondano Sherlock Holmes e il suo mondo. Del resto, Sherlock Holmes è ormai per tutti un'icona letteraria, conosciuta in ogni angolo del globo. Perché dunque non dovrebbe confrontarsi con altre, reali, icone letterarie vissute nella sua stessa epoca?
Quindi in effetti non c'è un vero e proprio mistero da risolvere, poiché esso è già stato risolto nel racconto originario di Conan Doyle. L'interesse viene dunque indirizzato sull'interazione di Holmes e Watson con questo mondo di cui - volenti o nolenti - fanno parte e che permea la società inglese dell'epoca. Inoltre lascia la curiosità di approfondire le biografie di alcuni scrittori e metterle a confronto con quanto descritto in questo romanzo.
Intendiamoci, non ci troviamo di fronte a un gioiello letterario, mi rimane sempre il dubbio che le opere derivative non possano esserlo per natura. Rimane comunque una lettura piacevole, in ultima analisi. Qualcosa per cui vale la pena spendere parte del proprio tempo. E ringraziare Sir Arthur Conan Doyle per questa sua mirabile invenzione.