giovedì 28 maggio 2020

Fabolous Stack of Comics: Life Zero



Un virus che trasforma gli esseri umani in creature simili a zombie, affamate di carne umana. Un gruppo di veterani dell'esercito che deve sventare questa minaccia e salvare il mondo, o almeno così viene fatto loro credere. Un uomo portato al limite, costretto a compiere una scelta che potrebbe sconvolgere per sempre la sua vita e quella delle persone attorno a lui.
No, stavolta non si parla di un fumetto americano. Stavolta sotto i riflettori vi è una produzione al cento per cento italiana, tranne che per il titolo: Life Zero. Una miniserie in 3 numeri pubblicata tra il 2015 e il 2016. Soggetto e sceneggiatura sono stati ideati da Stefano Vietti e Marco Checchetto, con quest'ultimo che si è occupato anche della parte grafica.
Nell'immaginaria città di New Easton, un reparto speciale dell'esercito americano preleva dalla prigione il loro ex capitano, Derek Shako, lì finito dopo essere caduto in una trappola ai suoi danni. A capo della spedizione c'è la moglie di Shako, Laura, il quale ha bisogno dell'aiuto di suo marito per salvare la loro figlia Anna.
Anch'essa, infatti, è ora prigioniera dell'incubo in cui versa New Easton, vittima di un'invasione di creature mutate da una nube. La ricerca di sua figlia e la scoperta della vera natura di quella nube saranno i primi passi di Shako verso una progressiva discesa all'inferno, fisico e metafisico.
Un fumetto scritto e disegnato da un team italiano e ambientato negli Stati Uniti. No, non ne è venuta fuori una "americanata", ma un prodotto con una sensibilità tutta italiana. Non mancano le scene di azione, anzi, si può dire che Life Zero non lasci quasi mai un attimo di respiro in tal senso. Eppure ben presto l'azione e l'introspezione di tutti i vari personaggi, anche quelli destinati a sparire in poche pagine, iniziano a progredire di pari passo, una non riesce a fare a meno dell'altra.
I disegni di Marco Checchetto sono funzionali a questo percorso narrativo parallelo, con tavole impostate come se ci trovassimo di fronte a un blockbuster hollywoodiano pieno di effetti speciali, esplosioni, cervelli zombi che saltano e molto altro. La parola all'ordine del giorno è dinamicità e non viene mai meno.
Va fatta inoltre una menzione d'onore ad Andres Mossa. Spesso - in maniera colpevole - mi accorgo dell'apporto del colorista a un fumetto solo in un secondo momento. In questo caso però è impossibile non rimanerne colpiti fin dall'inizio: c'è un contrasto tra luci e ombre, colori chiari e scuri, che non ha forse eguali e contribuisce a dare ancora più "vita" alle matite del disegnatore romano.
Sotto una neve battente che sembra essersi trasferita dalle pagine de l'Eternauta, Shako si ritrova catapultato in questo strano, nuovo mondo così come accade a Rick Grimes nel primo numero di The Walking Dead. Entrambi ne erano esclusi all'inizio, Grimes perché in coma, Shako perché in prigione, e come uomo di autorità e autoritario alla pari di Grimes, Shako sarà la molla che causerà un drammatico punto di non ritorno. Non vittima di questo mondo, ma suo carnefice.
Ogni personaggio è destinato a soffrire, ogni personaggio è destinato a divenire incapace di tracciare una propria strada e, quando prova a farlo, giunge in maniera drammatica e rapida una pena del contrappasso.
Life Zero è un progetto a sé stante? Sì e no. Chi legge questa miniserie ne vede l'epilogo, ma viene lasciato anche qualche appiglio per possibili storie future. Sono passati quattro anni e con pazienza aspettiamo. Gli impegni di Vietti e Checchetto di certo rendono difficile questo compito. Ma noi attendiamo, con pazienza, poiché... Non sai cosa porti la sera inoltrata.

domenica 24 maggio 2020

Libri a caso: Le Gallerie del Tempo



Poul Anderson. Un nome, una garanzia. Centinaia tra romanzi e racconti, sia fantascienza che fantasy, prodotti nell'arco di una lunghissima carriera. Come ogni scrittore di fantascienza che si rispetti, ha anche concepito una sua Storia Futura ma - siccome ama fare le cose in grande - l'ha dipanata non in uno, bensì due cicli, quello su Nicholas Van Rijn e quello su Dominic Flandry.
Questo non gli ha comunque impedito di produrre anche romanzi autoconclusivi e leggibili a sé stanti, come ad esempio Le Gallerie del Tempo (The Corridors of Time), pubblicato nel 1965.
La storia è incentrata sui viaggi del tempo, uno di quegli argomenti che proprioguardaognivoltacheseneparlavieneatuttiilmalditesta! Anderson risolve la cosa affermando che la storia con la S Maiuscola non può essere cambiata, ma due gruppi con visioni differenti cercano ognuno per i propri scopi di dominio di conquistare varie epoche storiche. Da un lato i Guardiani, che vorrebbero preservare la vita nella sua essenza originaria guidando gli umani col loro sapere e senza interferenze esterne, dall'altro i Pionieri, che invece vorrebbero plasmare la vita degli esseri umani con i loro dispositivi e le loro macchine.
Coinvolto in questo conflitto, non suo malgrado e non sotto coercizione, vi è Malcolm Lockridge, un uomo del ventesimo secolo con un passato tormentato che sta cercando di lasciarsi alle spalle e quindi un futuro come quello prospettatogli da Storm Darroway dei Guardiani appare ai suoi occhi un sogno che diventa realtà. Nella Danimarca del passato pre-vichinga e in un futuro ancora distante, tuttavia, Lockridge capirà che ogni ideologia presenta dei lati oscuri.
La storia prosegue su binari che, con la malizia di oggi, riusciamo a prevedere e presenta solo qualche piccolo punto morto. Risente molto forse degli anni che sono passati da quando fu concepita e dunque occorre contestualizzarla in tal senso per apprezzarla al meglio.
Risulta infatti alla fine che Anderson abbia voluto, coi Guardiani e i Pionieri, fare un'allegoria non tanto della religione e della scienza, ma di chi sfrutta e porta alla perversione i loro dogmi per convertire le menti più deboli, invece che dare loro nuovi obiettivi e una visione più ampia del mondo attorno a noi. Un messaggio non così scontato nel 1965.
Tanto che infatti Malcolm Lockridge, e altri che si uniranno a lui, compiono una terza scelta, quella salvifica: una scelta compiuta in piena autonomia, valutando con la propria testa e senza rinnegare del tutto ciò che quei dogmi possono insegnare loro per progredire come esseri umani.
Anderson non preme più di tanto sul lato "moralistico" della vicenda, che rimane dunque sotto traccia ma comunque ben presente, puntando più sul progredire della trama, cosicché poi il singolo lettore possa giudicare col proprio metro di giudizio, se vorrà cogliere il messaggio. Proprio come avrebbe fatto Malcolm Lockridge.
Un messaggio di fondo, se ci si pensa, non dissimile da quello di Crociata Spaziale.

lunedì 18 maggio 2020

Fabolous Stack of Comics: Deadpool contro Vecchio Logan

Da un lato abbiamo il mercenario chiacchierone, un concentrato di cinismo e battute al vetriolo. Dall'altro un Arma X invecchiato proveniente da un futuro distopico, amareggiato e in cerca di una propria identità in quello che per lui è il passato. Cosa potrebbe andare storto? Tutto.


Deadpool contro Vecchio Logan (Deadpool vs Old Man Logan) è una miniserie di cinque numeri pubblicata tra il 2017 e il 2018. Ai testi c'è Declan Shalvey, un disegnatore che prova a fare il salto della barricata, mentre ai disegni troviamo Mike Henderson, che compie un lavoro senza infamia e senza lode.
Declan Shalvey è un ottimo artista, che ha collaborato anche a un paio di progetti realizzati in coppia con Warren Ellis. Ho sempre un po' di timore quando un disegnatore prova a fare il "salto della barricata", ma va anche ammesso che, se proprio bisogna farsi le ossa come sceneggiatore, una miniserie che non ha alcun impatto sui personaggi e la loro continuity è una buona palestra.
Shalvey punta per questa miniserie su due elementi narrativi abbastanza scontati, ma comunque ben inquadrati nel contesto della storia: le differenze caratteriali tra i due personaggi e il fatto che entrambi siano prodotti del Progetto Arma X. Cosicché, quando si imbattono - ognuno per motivi differenti - in una mutante di nome Maddie, che rischia di divenire vittima di un'organizzazione surrogata di Arma X, non possono fare a meno di vedere in lei il loro passato e cercare di aiutarla, ognuno a modo suo.
Da qui alcuni contrasti che portano al versus del titolo, con i due che non immaginano che - presi dai loro demoni personali e perseguendo i loro obiettivi - la visione del mondo di Maddie potrebbe differire dalla loro in maniera drastica.
La storia procede dall'inizio alla fine su binari consueti, quindi non aspettatevi grandi colpi di scena. Shalvey parte dal presupposto che i due protagonisti siano già conosciuti dai lettori e forse da un certo punto di vista è giusto così. In ogni caso, se non avessi letto la minisaga che introduce Vecchio Logan di Mark Millar e Steve McNiven, avrei fatto fatica a inquadrare il personaggio (sì, sono d'accordo con voi, chi non l'ha letta commette un crimine contro l'umanità). Bello quando Vecchio Logan cambia all'improvviso idea su Maddie, volendo ucciderla in quanto da lui ritenuta pericolosa, scordandosi che Charles Xavier non pensò la stessa cosa di lui quando lo accolse tra gli X-Men... bel voltafaccia.
Shalvey fa quello che può nei limiti delle sue competenze di sceneggiatore, che credo non siano molto ampie, marcando non più di tanto sul lato "giocoso" e surreale di Deadpool. Ne risulta dunque una storia che vira di più sulla serietà che sulla seriosità. Quando un altro personaggio che non è Deadpool fa una battuta su una scoreggia, echi dei film con Massimo Boldi e Christian De Sica sono comunque risuonati attorno a me.
Non mi sento comunque di affossare del tutto questa miniserie. Alla fine adempie al suo compito... non era certo partita con l'intento di essere il nuovo Watchmen... e risulta quella lettura disimpegnata e senza troppe pretese che con ogni probabilità a Declan Shalvey è stato chiesto di impostare. Insomma, se cercate qualcosa di leggero, da "sciroppare" in tutta fretta, con cui intervallare altre vostre letture, questa è la storia che fa per voi.

sabato 16 maggio 2020

Fabolous Stack of Comics: Spaceman



L'accoppiata formata da Brian Azzarello ed Eduardo Risso è nota per aver concepito una delle più apprezzate serie della Vertigo, ovvero 100 Bullets. Una collaborazione alla Stan Lee/Jack Kirby, oserei dire, poiché è andata avanti per dieci anni - dal 1999 al 2009 - e, appunto, 100 numeri.
I due tornano a collaborare nel 2011, ancora per l'etichetta Vertigo, grazie alla miniserie in nove numeri, preceduta da un prologo, Spaceman, dove intraprendono nuove strade narrative.
La storia è un continuo alternarsi tra passato e presente ambientato in un prossimo futuro da incubo. Un futuro dove le risorse del pianeta Marte sono state sfruttate grazie a persone modificate geneticamente per adattarsi alla superficie del pianeta, cosa che però li ha anche resi dei paria agli occhi della cosiddetta società "perbene". Il tutto ovviamente a scopi economici e militaristi.
Uno di  questi Uomini dello Spazio, Orson, ritornato sulla Terra, finisce a vivere in un quartiere povero, ma rimane coinvolto - suo malgrado o meno non è dato sapere - in un reality show in cui è protagonista la figlia adottata di una coppia di celebrità, rapita da alcuni loschi figuri. Il tutto si intreccerà con quanto accaduto in passato su Marte a lui e agli altri suoi "fratelli", uno dei quali ha il dente avvelenato nei suoi confronti.
Azzarello dipinge una società dove sembrano non esistere zone di grigio, o forse addirittura non esiste né il bianco né il nero e tutti ma proprio tutti sono pedine di forze più grandi di loro. Una società mediatica invisibile, ma al tempo stesso presente in ogni aspetto delle vite altrui, quelle vite su cui esercita controllo e manipolazione.
Lo sceneggiatore non fa mistero di detestare questo tipo di dittatura farsesca, specchio degli Stati Uniti in cui vive, dove la vita di una persona quando finisce sotto gli occhi dei riflettori viene stritolata. Una dittatura che in quanto tale non guarda in faccia a nessuno, prendendosela anche e soprattutto con le persone più deboli e indifese. È possibile sfuggire ad essa? La risposta di Azzarello potrebbe non essere delle più rassicuranti.
Eduardo Risso rende la narrazione per immagini frenetica, concentrandola in numerose vignette per pagina e facendo invece scarso uso di vignette a tutta o mezza pagina. Così che ogni vignetta ti porti subito a scrutare la successiva. Un lavoro davvero eccellente.
Spaceman è una storia ancora relativamente recente e le cui visioni risultano più attuali che mai, soprattutto nella sempre più ampia disparità tra classi agiate e classi medie e nell'invadenza dei mezzi televisivi nelle vite ordinarie di ognuno di noi.

venerdì 8 maggio 2020

Libri a caso: Poirot e i Quattro


E meno male che avevamo detto di esserci liberati di Arthur Hastings! Quattro anni dopo la sua partenza per l'Argentina al termine di Aiuto, Poirot! il personaggio ricompare in Poirot e i Quattro (The Big Four), pubblicato nel 1927. A quanto pare, Agatha Christie non riesce a far scomparire così facilmente questo comprimario delle storie di Hercule Poirot. La storia dietro questo romanzo è tuttavia particolare.
Esso infatti esordisce sotto forma di racconti interconnessi che vengono serializzati su una rivista nel 1924, un anno dopo la pubblicazione di Aiuto, Poirot! Questo si riflette anche sulla trama, poiché Hastings fa ritorno in Europa dopo alcuni mesi dal suo trasferimento per chiudere alcune faccende in sospeso, prima di andare a trovare Poirot a Londra, dando vita a una convulsa serie di eventi tra omicidi, attentati, scambi di persona, doppio e triplo gioco, che si dipanano in un lungo periodo di tempo, quasi un anno.
Due anni dopo la pubblicazione di questi racconti, tuttavia, Agatha Christie affronta la drammatica fine del suo matrimonio col primo marito Archibald. Forse per venire incontro a degli impegni con l'editore dopo il grande successo de L'assassinio di Roger Ackroyd, ma non avendo ancora riacquistato la necessaria serenità d'animo per tornare a scrivere un nuovo romanzo, decide di riprendere quei racconti e fare alcuni piccoli aggiustamenti per creare un unicum compatto.
Il risultato non è dei migliori, come lei stessa ammetterà alcuni anni dopo, ma il libro ottiene comunque uno straordinario successo, poiché al tempo della sua pubblicazione sono ancora forti gli echi della misteriosa scomparsa ed amnesia di Agatha Christie. Una scomparsa che avviene poco dopo tempo la consegna del manoscritto.
In questa storia, in cui la scrittrice decide di distaccarsi in via eccezionale dalla consueta detective story per virare su tematiche più vicine allo spionaggio, Poirot si confronta con un'organizzazione criminale nota come I Quattro (non Fantastici), fondata dall'orientale Li Chang Yen, il Numero Uno - la versione di Fu Manchu della scrittrice specchio dell'allora temuto pericolo giallo, tanto che un paio di epiteti razzisti ma comuni all'epoca inevitabilmente compaiono - e guidata col pugno di ferro sul suolo inglese dal letale ma mica tanto Numero Quattro.
Lo schema dei racconti, il cui ritmo può funzionare in una serialità da rivista, fallisce invece quando sono tutti raccolti in un solo romanzo. Lo schema è grossomodo sempre quello: I Quattro tendono un agguato a Poirot e Hastings che non va a buon fine, oppure è Poirot che concepisce un piano contro I Quattro che non riesce a essere portato a compimento.
I Quattro sembrano quei criminali tesi alla dominazione del mondo (per farsene cosa, poi) che si abbandonano agli spiegoni, lasciando agli eroi tutto il tempo di liberarsi, oppure quelle menti eccelse che invece che usare le sempre efficaci armi contro i loro nemici concepiscono elaborate trappole neanche fossero la SPECTRE degli esordi... ah già, la SPECTRE doveva ancora essere ideata da Ian Fleming.
Non è comunque tutto da buttare e anche il romanzo meno riuscito di Agatha Christie risulta sempre più interessante del romanzo meglio riuscito di uno scrittore mediocre (inserite voi il nome che preferite a questo punto). La figura del Numero Quattro in particolare, pur con alcune sue eccentricità, risulta ben costruita e imprevedibile e incontra quel finale enigmatico alla Holmes/Moriarty che male non fa.
Ecco, magari lasciatelo in fondo alla pila dei romanzi di Agatha Christie da leggere, però alla fine leggetelo.

mercoledì 6 maggio 2020

Fabolous Stack of Comics: Superman - Pace in Terra


Spesso ci si pone la domanda:"Ma come mai i supereroi, con tutti i loro poteri, non si sforzano di risolvere i grandi problemi del mondo?". Per The Authority, di Warren Ellis e Mark Millar, la risposta è che questi supereroi di stampo classico sono "figli" di un preciso status quo e che quindi, in quanto tali, non intendono modificarlo. Sarà davvero così?
Paul Dini e Alex Ross, tramite l'one-shot Superman: Pace in Terra (Superman: Peace on Earth) pubblicato nel 1998 - pochi mesi prima dell'esordio di The Authority - offrono un punto di vista differente. Qui il protagonista è il più potente dei supereroi, Superman: nemmeno lui, capace di ogni impresa possibile, è in grado di risolvere i problemi nel mondo?
Dini e Ross lo mettono di fronte a un problema cardine: la fame nel mondo. Superman stesso riconosce di non essere stato proattivo nei confronti di alcune problematiche e decide di cambiare strategia. Partendo appunto dal problema della carestia.
Superman ha immensi poteri, ha l'appoggio di molti governi, è benvoluto dalla popolazione di tutto il mondo... eppure alla fine ammette a sé stesso e agli altri di aver fallito in questa impresa. Come mai? La risposta di Dini e Ross forse non è delle più confortanti: ci sono problemi che neanche Superman - o comunque un uomo solo - è in grado di risolvere.
Anche nella sua ricerca del bene assoluto, l'eroe incontra il male assoluto: gente che detiene il potere sulle persone e non vuole perderlo, signori della guerra capaci di uccidere innocenti purché la gente continui a vivere nel terrore, ma anche popolazioni che non vedranno quel problema risolto quando le scorte finiranno, poiché non hanno le infrastrutture necessarie a progredire a causa dell'economia globale. Situazioni che non si possono aggiustare con dei pugni.
Quindi Superman compie un gesto che riterremmo impensabile: si arrende. Capisce di poter fare di più non con la sua personalità superumana, ma con quella umana, come Clark Kent, insegnando agli altri quello che suo padre Jonathan insegnò a lui.
Dini e Ross infatti concludono il tutto con la morale - scontata o meno che sia - dell'uomo che deve aiutare i suoi simili, perché costoro aiutino altri uomini, in un continuo circolo virtuoso che faccia progredire tutti quanti.
La storia è e vuole essere molto dialogata e vista solo attraverso gli occhi di Superman - non c'è spazio infatti per i pensieri o le frasi di altre persone, che vengono filtrate dalle dichiarazioni dell'eroe - ma risulta comunque ben scritta, seppur in maniera inevitabile piena di un paio di scivoloni retorici.
Alex Ross dipinge un Superman maturo e provato, in contrasto con un Clark Kent più solare. La prova impossibile a cui l'eroe si sottopone ne fa emergere il carattere cupo, che si riflette nelle ombre che a volte compaiono sul suo volto o circondano l'ambiente in cui si trova. Vi è un ampio uso inoltre, come è consuetudine per questo disegnatore, di splash page e vignette doppie.
Cosa rimane dunque di questa storia, a più di vent'anni dalla sua pubblicazione? Di certo non poteva esserci una rappresentazione diversa di Superman e della sua personalità o un finale pessimista, ma quell'idea che questo status quo sia davvero impossibile da modificare oggi viene più che messo in dubbio, da The Authority e non solo.

lunedì 4 maggio 2020

Libri a caso: Il Visitatore


John Brunner è stato uno scrittore di fantascienza atipico nel panorama americano. L'elemento fantastico nelle sue storie era sì presente, ma nella maggior parte dei casi rimaneva sullo sfondo, poiché lui preferiva concentrarsi sulle interazioni umane e analizzare alcune dinamiche e problematiche sociali della sua epoca, che venivano presentate sotto forma di metafora nei vari romanzi da lui prodotti.
Il Visitatore (Web of Everywhere), pubblicato nel 1974, rientra in questa categoria di romanzi. L'ambientazione che fa da sfondo a questa storia è un mondo che si è appropriato di una tecnologia di teletrasporto che ha causato delle grandi guerre e, a seguito della conclusione della più letale di essa, una pandemia che ha più che decimato la popolazione terrestre. Tale tecnologia, denominata Skelter, è stata dunque resa sicura e messa a disposizione di una classe di privilegiati e delle autorità di polizia.
John Brunner compie un'opera coraggiosa, facendo sì che i protagonisti della storia siano due personaggi, se non proprio negativi, che non rispettano i canoni dell'eroe classico. Da un lato abbiamo Hans Dykstra, cercatore di tesori del mondo pre-epidemia, dall'altro Mustafà Sharif, poeta e filosofo.
La negatività di queste due persone nasce dal fatto che, oltre a essere "contrabbandieri" dei codici che permettono di accedere alla tecnologia degli Skelter, hanno entrambi una personalità prevaricante nei confronti di chi ha la sfortuna di incrociare la loro strada: piegano le volontà delle persone ai loro desideri, giustificano le loro mancanze dando sempre la colpa agli altri, in un caso uno di loro porta addirittura un'altra persona al suicidio. Risulta dunque difficile, per non dire impossibile, e credo che fosse proprio questo l'obiettivo di Brunner, identificarsi in loro.
In questo romanzo vediamo un mondo disastrato attraverso gli occhi e la mente di due antieroi. Dove quindi lo spazio per la speranza viene messo da parte in maniera rapida. Un confronto finale tra loro due sarà inevitabile e, se proprio dovessi puntare il dito su un difetto di questa storia, è forse l'eccessiva frettolosità del finale.
Come anticipato, l'elemento fantastico (la tecnologia di teletrasporto e il suo abuso) rimane in buona parte sullo sfondo e l'autore concentra la trama sulle interazioni dei due protagonisti con gli altri personaggi della storia, vittime ma al tempo stesso anche carnefici dei due. E analizza questa società introducendo dinamiche sociali molto coraggiose, per l'epoca in cui il romanzo fu scritto, parlando apertamente di convivenza e matrimoni tra persone dello stesso sesso.
Brunner sembra voler suggerire che è il giudizio sulle scelte che compiamo - buone o cattive che siano - che ci definisce davvero agli occhi della società. Dykstra e Sharif vedono ciò che fanno come, seppur non giusto, inevitabile e figlio di questo nuovo mondo. I due avrebbero anche potuto avere una vita felice, ma hanno scelto sentieri che porteranno ognuno di loro a un epilogo differente. Un epilogo non scelto da loro e di certo non desiderato, ma la gabbia invisibile che si sono costruiti attorno per tutta la loro vita non ha concesso loro altre opzioni.

sabato 2 maggio 2020

The Mandalorian e gli insoliti affetti


Non avendo un amico ad Amsterdam che mi potesse prestare la sua connessione VPN, ho visto la prima stagione di The Mandalorian come tutti gli ordinari esseri umani, su Disney + al suo esordio in Italia e aspettando con pazienza il rilascio dell'episodio settimanale.
Ora che la prima stagione si è conclusa, aldilà delle lodi sperticate che trovate in giro per la rete e a cui mi associo, c'è un particolare che mi è rimasto impresso. Oserei dire la caratteristica che più di ogni altra ha reso questa serie un prodotto vincente finora.
The Mandalorian è una metafora dell'essere padre, o ancora meglio dell'essere genitore, aldilà delle convenzioni sociali e dei (pre)giudizi delle persone. E ne sono protagonisti due spiriti affini, loro malgrado.
Da un lato abbiamo appunto il protagonista, Mando alias Din Djarin, rimasto orfano in tenera età a causa di un attacco imperiale e poi adottato dalla Gilda, che però al suo interno non ha figure paterne o materne. È dunque un orfano a tutti gli effetti.
Dall'altra parte invece c'è il Bambino, unico nel suo genere in apparenza, rimasto prigioniero per chissà quanto tempo e oggetto di cacce e attentati che non tengono conto della sua vera natura di infante, vedendolo solo come una preda. La sua razza è ignota, non si sa se esistano altri nella Galassia come lui. Anche lui è dunque un orfano a tutti gli effetti.
Ecco dunque ciò che più lega questi due personaggi: essere cresciuti senza una famiglia. Essere soli al mondo. Questa è la ragione per cui Mando decide infine di prendere sotto la sua ala protettiva il Bambino, che a sua volta ha dimostrato di essergli affezionato salvandogli la vita.
Mando diviene così il vero padre del Bambino, pur non essendone il genitore naturale. Perché vecchie concezioni ancora presenti nella società portano alcune menti inferiori a pensare che i genitori possano essere solo quelli biologici, che solo loro siano titolati a dare un'educazione ai propri figli. Ma la figura del genitore non può ridursi a un semplice fatto biologico.
Essere genitore vuol dire ben altro, comporta educare e proteggere i propri figli da tutti i mali da cui da piccoli sono necessariamente indifesi. Ed è proprio questo che Mando fa nei confronti del Bambino, perché lui non debba subire il suo stesso destino.
Questa caratteristica ha portato a mio avviso molti spettatori, e credo non solo quelli di genere maschile, a identificarsi nel personaggio. In quanti inconsciamente avranno apprezzato quel rapporto di insolito affetto tra Mando e il Bambino, un rapporto a cui molti ambiscono, ma che sciocchi paletti della società a volte precludono. Sono coloro che vedevano la saga di Star Wars da piccoli e ora sono cresciuti, sono diventati adulti. Con tutte le gioie e i dolori che questo comporta.

venerdì 1 maggio 2020

Libri a caso: Sherlock Holmes - La Soluzione Sette Per Cento


Il Problema Finale (The Final Problem) rappresenta un caposaldo dei racconti di Sherlock Holmes scritti da Arthur Conan Doyle. In questa storia, Conan Doyle, non tanto per odio verso il suo personaggio quanto per il fatto che la scrittura delle sue storie gli portava via molto tempo, impedendogli di dedicarsi ad altri progetti a lui più cari, decide infatti di sbarazzarsi del celebre detective.
Crea perciò dal nulla un nemico impossibile da battere, il Professor James Moriarty, facendo sì che sia lui che Holmes periscano in un drammatico scontro in Svizzera. La fan base di Holmes, all'epoca pari a quella di Star Wars oggi con ogni probabilità, qualche anno dopo convince poi Conan Doyle a tornare sui propri passi, dando vita al Great Hiatus, il Grande Iato, ovvero il periodo della scomparsa del detective.
Il tutto ci porta a quello che è uno dei più celebri apocrifi dedicati a Sherlock Holmes, forse l'unico che abbia anche goduto di una trasposizione cinematografica: La Soluzione Sette per Cento (The Seven-Per-Cent Solution), scritto da Nicholas Meyer e pubblicato nel 1974 e che io ho recuperato nella versione pubblicata su Il Giallo Mondadori: Sherlock.
Chi vede il Canone di Doyle come la Bibbia di certo non amerà questo romanzo, quindi il mio consiglio è che si veda il tutto con una mentalità non ristretta da questo punto di vista.
Un romanzo che si riallaccia a un'altra caratteristica che oggi si tende in maniera conveniente a dimenticare del celebre detective, la sua dipendenza dalla cocaina. Può apparire folle ai nostri occhi moderni, ma nel diciannovesimo secolo l'uso di sostanze stupefacenti era una cosa ordinaria, come bere il thè, anche tra le classi meno privilegiate. Alcuni oppiacei venivano addirittura usati per fini medici. Conan Doyle è uno scrittore che non indulgeva più di tanto in alcuni aspetti di trama, così in una storia - tramite Watson - si limita semplicemente a dire che Holmes a un certo punto non ha più fatto uso di cocaina.
Meyer combina questi due particolari della vita di Holmes unendoli in una sola, coerente trama che si dipana tra Londra e Vienna, dove Holmes e Watson faranno la conoscenza di uno dei deus ex machina di questa storia, Sigmund Freud. Sì, proprio quel Freud. Il tutto infarcito con complotti internazionali, minacce belliche da sventare e treni in corsa verso l'ignoto.
Risulta ai miei occhi molto affascinante la descrizione della Vienna dell'epoca d'oro - il romanzo si svolge nel 1891 - sia dei quartieri più abbienti che di quelli più disagiati e in generale le interazioni umane, positive e negative, che intercorrono tra i personaggi. Viene data una splendida descrizione dell'amicizia tra Holmes e Watson, la quale diviene metafora dei legami più forti che abbiamo con certe persone e che per il nostro benessere si spingono fin dove è possibile... e anche oltre.
Qualche peccatuccio, o forse convenzione narrativa largamente accettata decenni fa, appare dunque trascurabile. Ad esempio, Holmes si disintossica in due giorni e mezzo - non sono un esperto, ma dubito che un cocainomane da svariati anni possa liberarsi in così poco tempo della sua dipendenza - e Watson arriva a Freud in maniera un po' forzata.
In certi punti infine Sigmund Freud sembra Ethan Hunt di Mission: Impossible. Diciamo che dopo questo romanzo vedrete il padre della psicanalisi sotto una luce diversa, se già non vi è bastato il serial di Netflix.
E il "Grande Iato"? Forse la spiegazione alternativa dietro a questo periodo fornita da Meyer rimane quella più realistica, ma meno "romantica" comparata a quella di Doyle. Ognuno si farà la propria idea, alla fine. Tanto, si sa, il Canone rimane sempre un obiettivo inarrivabile.