Vi è stata una "Golden Age" del giallo italiano. Un'Era Dorata che si è sviluppata nel periodo storico in cui si riterrebbe meno probabile il poter parlare apertamente al pubblico di omicidi, criminali e malefatte che avvenivano sul territorio italiano: il ventennio fascista.
E invece, con l'inizio della pubblicazione della prima collana di romanzi gialli da parte della casa editrice Mondadori, la quale importava principalmente i capolavori del genere della narrativa inglese, in maniera saltuaria comparivano anche romanzi scritti da autori italiani, con protagonisti commissari del "belpaese".
Di questi, uno dei più noti, forse il più noto è il Commissario Carlo De Vincenzi, ideato dallo scrittore Augusto De Angelis, che compare per la prima volta nel romanzo Il Banchiere Assassinato, pubblicato nel 1935.
La storia si svolge nel 1925 ed è ambientata in una Milano spettrale, avvolta dal freddo e da una nebbia impenetrabile. Mentre sta parlando col suo amico Giannetto Aurigi, De Vincenzi riceve la notizia del ritrovamento del cadavere del banchiere Mario Garlini. E il luogo in cui si trova è l'appartamento in cui vive proprio Aurigi.
Con ogni prova che sembra inchiodare il suo amico per l'assassinio del banchiere, De Vincenzi inizia una corsa contro il tempo per capire come siano andate davvero le cose, trovandosi di fronte a numerosi muri di bugie, ma riuscendo infine con astuzia e fortuna a sbrigliare la matassa.
Leggendo l'opera, si può ben capire come mai lo scrittore fosse inviso al regime, al punto che qualche anno dopo avrebbe pagato con la vita tutto questo. La trama dell'indagine, pur essendo il motore di tutta la vicenda, tanto che non vi è nessun'altra sottotrama, quasi impallidisce di fronte alla figura del Commissario De Vincenzi, vero e proprio deus ex machina.
Un tutore della legge fedele e devoto, ma al tempo stesso un personaggio cupo e ombroso, il quale è convinto che non vi sia nessun destino predeterminato e che ogni esistenza sia dominata dal caos. Una figura di investigatore abbastanza inedita, per quel periodo.
Un caos che sembra rispecchiarsi anche nel ritmo del racconto, concentrato - salvo l'epilogo - in meno di ventiquattro ore e composto principalmente da dialoghi tra i vari personaggi, con descrizioni ridotte al minimo ma efficaci, il tutto creando la giusta tensione.
Fa da cornice alla storia una città, Milano, che sembra aver perso ogni vestigia di umanità: la nebbia o l'oscurità ne coprono la vista, trasformandola quasi in un'entità astratta.
Anche gli altri protagonisti della storia, compreso il colpevole, sembrano burattini nelle mani di quel caos che tutto avvolge, cosicché alla fine non pare sia stata fatta giustizia, bensì sia stato chiuso solo un brutto capitolo di una vicenda di per sé che si vorrebbe dimenticare.
Tanto che non vi è gioia alla fine per De Vincenzi, bensì un accenno di lacrime. Fino alla prossima indagine. Fino ad altre esistenze travolte dal caos.
Come nota di colore finale, invece, risulta molto affascinante leggere un'opera dove è presente un lessico di molti decenni fa e veder utilizzati termini ora desueti come "istanza", "giuoco" o altri e ricavare da essi quasi un suono poetico. Il suono del passato che non torna più.
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